10 GIUGNO 2025 ENTRA IN VIGORE LA LEGGE N.76/2025 CHE DISCIPLINA LA PARTECIPAZIONE DEI LAVORATORI ALLA GESTIONE, AL CAPITALE E AGLI UTILI D’IMPRESA
10 GIUGNO 2025 ENTRA IN VIGORE LA LEGGE N.76/2025 CHE DISCIPLINA LA PARTECIPAZIONE DEI LAVORATORI ALLA GESTIONE, AL CAPITALE E AGLI UTILI D’IMPRESA
E’ ufficialmente entrata in vigore la Legge n. 76/2025, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 120 del 10 giugno 2025. Si tratta della nuova normativa italiana che promuove e disciplina la partecipazione dei lavoratori alla gestione, al capitale e agli utili d’impresa .
VISIONEROMA INTENDE APPROFONDIRE L’ARGOMENTO IN RELAZIONE AD UNA SUA APPLICAZIONE NELLA REALTA’ LAVORATIVA ROMANA.
E’ ALLO STUDIO UNA SPECIFICA INIZIATIVA
Le principali novità della legge
- Oggetto: favorire l’ingresso dei lavoratori nei processi decisionali, economici e finanziari dell’azienda .
- Modalità di partecipazione:
- Gestione – presenza nei consigli di amministrazione o di sorveglianza.
- Organizzativa – coinvolgimento su processi, gestione e innovazione.
- Economico‑finanziaria – distribuzione di almeno il 10 % degli utili tramite dividendi.
- Consultiva – consultazione su strategie e piani aziendali .
- Ruolo della contrattazione collettiva: le forme concrete di partecipazione saranno definite nei contratti collettivi a tutti i livelli .
- Aziende coinvolte:
- Tutte le imprese, incluse le cooperative.
- Imprese con meno di 35 dipendenti: possono introdurre forme semplificate tramite enti bilaterali .
- Incentivi: misure fiscali e un fondo governativo da circa 71 milioni € per promuovere l’azionariato diffuso tra i lavoratori .
Tempistica
- Approvata definitivamente dal Parlamento a maggio 2025.
- Pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 10 giugno 2025, con efficacia immediata – da oggi, 10 giugno 2025, la legge è pienamente operativa .
Cosa cambia nella pratica
- Le aziende dovranno realizzare accordi contrattuali specifici per attivare la partecipazione.
- Saranno costituiti organismi (es. commissioni paritetiche) per decidere su investimenti, organizzazione e dividendi.
- I lavoratori possono ricevere una quota degli utili (non inferiore al 10%) sotto forma di dividendi o premi.
- Potrebbero inserirsi rappresentanti dei lavoratori in organi aziendali.
Perché è importante
- È un’applicazione concreta dell’articolo 46 della Costituzione, che da decenni mancava di attuazione piena .
- Secondo chi l’ha promossa (CISL), mira a migliorare produttività, qualità del lavoro, formazione continua e relazioni industriali .
- CGIL e UIL hanno criticato la legge perché lascerebbe eccessivo margine d’intervento all’azienda, potenzialmente indebolendo il ruolo sindacale .
In sintesi
- Legge n. 76/2025 entra oggi in vigore (10 giugno 2025).
- Introduce quattro canali di partecipazione dei lavoratori: gestionale, organizzativo, economico-finanziario e consultivo.
- Cruciale il ruolo della contrattazione collettiva per attuare le misure e decidere modalità.
- Previsti incentivi fiscali e un fondo di 71 milioni per iniziative di azionariato diffuso.
Applicazione della Legge 76/2025 sulla Partecipazione dei Lavoratori
ESEMPI DI POSSIBILE APPLICAZIONE NELLA REALTA’ LAVORATIVA ROMANA
- Settore Manifatturiero – Roma Est
Azienda: XXXXXXXX
Settore: Manifatturiero (impianti industriali)
Zona: Roma Est (Tiburtina)
Dipendenti: 110
Sindacati: FIOM-CGIL, FIM-CISL
Partecipazione gestionale: presenza osservativa nel CdA.
Partecipazione economica: 10% utili distribuiti tra premi e formazione.
Partecipazione consultiva: Comitato paritetico su investimenti, sicurezza, turni.
Criticità: rischio di formalismo, bassa adesione all’azionariato.
- Sanità Privata – Roma Nord
Azienda: Clinica XXXXXX
Settore: Sanità privata convenzionata
Zona: Roma Nord (Cassia)
Dipendenti: 240
Sindacati: FP-CGIL, CISL FP
Partecipazione organizzativa: incontri mensili su carichi di lavoro e turnazioni.
Partecipazione gestionale: rappresentante sindacale nei tavoli strategici (senza voto).
Partecipazione economica: premi variabili legati alla qualità del servizio e al numero di pazienti assistiti.
Criticità: bassa trasparenza, scarsa incidenza sui veri processi decisionali.
- Grande Distribuzione (GDO) – Roma Sud
Azienda: Supermercati XXXXXXX
Settore: Grande distribuzione
Zona: Roma Sud (EUR – Laurentina)
Dipendenti: 580 (in più punti vendita)
Sindacati: UILTuCS, Filcams-CGIL
Partecipazione economica: bonus annuali per produttività e vendite.
Partecipazione consultiva: comitati paritetici per gestione ferie e innovazione logistica.
Azionariato: previsto solo per quadri e impiegati di sede.
Criticità: esclusione dei part-time e contratti a termine da molti strumenti partecipativi.
- Pubblica Amministrazione Locale – Centro Storico
Ente: Comune di Roma – Dipartimento XXXXXXXX
Settore: Pubblica Amministrazione
Zona: Centro storico
Dipendenti: 340
Sindacati: USB, CGIL Funzione Pubblica
Partecipazione consultiva: assemblee su piani di riorganizzazione e smart working.
Partecipazione organizzativa: gruppi di lavoro su qualità dei servizi e innovazione digitale.
Criticità: struttura gerarchica forte, limitato spazio alla partecipazione reale.
- Settore Commercio – Roma (GDO)
Azienda: XXXXX
Settore: Commercio al dettaglio (supermercati)
Zona: Roma, 12 punti vendita distribuiti in città
Dipendenti: 580 (40% part-time, 30% tempo determinato)
Sindacati: UILTuCS, Filcams-CGIL
Partecipazione consultiva: comitati per gestione ferie, orari spezzati e premi.
Partecipazione economica: premi annuali legati a fatturato e customer satisfaction.
Azionariato: previsto solo per quadri e impiegati di sede centrale.
Criticità: esclusione dei precari, decisioni strategiche centralizzate, partecipazione formale più che sostanziale.
Oggi debutta ufficialmente la nuova legge sulla Partecipazione dei lavoratori all’impresa, fortemente voluta dalla CISL e dal Governo di Giorgia Meloni, fieramente (e incredibilmente) osteggiata da CGIL e UIL, contrastata (debolmente) dall’opposizione.
In uno scenario caratterizzato in Italia da bassa produttività del lavoro, da scarsa soddisfazione media dei lavoratori nei confronti del proprio lavoro e da retribuzioni inadeguate, questo nuovo strumento (flessibile e volontario) potrebbe rappresentare un’arma preziosa nelle mani di imprese e sindacati per investire insieme sulla qualità del lavoro nel nostro Paese, la vera complessa sfida dei prossimi anni, superando le pericolose anomalie italiane. Ma sarà davvero così… o questa buona legge rimarrà lettera morta?
Saranno decisivi una serie di fattori culturali, di cui troppo poco si discute. Il più importante è il deficit di “cultura della collaborazione” che caratterizza, nella vita quotidiana delle aziende, una parte importante sia dei sindacalisti che di imprenditori e di manager.
Perché la via del conflitto è più “facile”, ideologicamente sicura e appagante nel breve termine. Peccato che l’unica strada per rafforzare produttività, qualità del lavoro ed engagement dei lavoratori sia esattamente l’opposta…
Ma la storia ha radici lontane
“Le implicazioni più ambiziose della proposta di Giugni, riguardanti la democrazia industriale, non dovevano invece avere seguito nelle vicende italiane, nonostante Giugni sia più volte ritornato sullargomento, con dovizia di argomenti, arricchitisi delle direttive europee. La legislazione sulla democrazia industriale doveva restare una delle sue proposte inattuate di politica del diritto. Gli ostacoli allaccettazione di forme partecipative, ulteriori rispetto ai diritti di informazione e consultazione, erano così fortemente radicati, sia negli orientamenti conflittuali di gran parte del sindacato, sia nelle concezioni conservatrici prevalenti fra gli imprenditori, da risultare insuperabili. Il tema della partecipazione non verrà ripreso neppure nei momenti salienti segnati dagli accordi del 1983 e del 1993; e Giugni doveva registrare questo significativo silenzio senza commenti, quasi con rassegnazione”
Gino Giugni teorico della democrazia industriale
Questo contributo che verte su Gino Giugni come teorico della democrazia industriale, rielabora e riprende l’articolo “La partecipazione conflittuale” pubblicato sul numero cartaceo di Mondoperaio del novembre/dicembre 2019, nel quadro di un monografico dedicato alla figura di Giugni nel decennale della scomparsa.
La democrazia industriale nella tradizione italiana: conflittualità, negoziazione e gestione esterna
Se si volesse individuare la figura che, nel contesto dei turbolenti anni Settanta, più di tutti e nella maniera più organica e sistematica si è spesa per un lavoro intellettuale di lungo periodo, finalizzato a dotare l’area del socialismo italiano di una propria autonoma elaborazione in materia di democrazia industriale e di partecipazione operaia ai meccanismi decisionali delle imprese, è senza alcun dubbio a Gino Giugni che bisognerebbe guardare. Nell’ambito di quella è che stata definita la ricomposizione libertaria del Psi, promossa dal nuovo corso di Bettino Craxi e finalizzata ad affermare l’indipendenza e l’originalità culturale del socialismo italiano, il “padre dello Statuto dei lavoratori” coprirà sul versante delle politiche sindacali e del lavoro l’azione di rinnovamento e di differenziazione promossa dal neo-segretario socialista.
I dibattiti che a partire dal ‘74 esprimono la volontà della rivista Mondoperaio di interrogare l’area socialista circa gli effetti di un’eventuale omologazione – sollecitata a livello CEE, del sistema italiano di democrazia industriale e sindacale al modello tedesco della Mitbestimmung –, vedono non a caso la direzione e il coordinamento dello stesso Giugni, giuslavorista di punta del Psi.
I suoi interventi lasciano trasparire sin da subito la preferenza che egli accorda – sia per ragioni politico-ideologiche di fondo, che per il rifiuto di una modellistica astratta e avulsa dalle condizioni e dalle specificità delle tradizioni sindacali nazionali – a quello che definisce il “modello italiano di democrazia industriale”, i cui elementi distintivi potrebbero essere individuati, in primis, nella centralità occupata al suo interno dalla dimensione della contrattazione, qualificando così quello italiano come un modello imperniato sul single channel, ossia su un canale di natura sindacale che agisce esternamente agli organi del governo societario dell’impresa; secondariamente, nell’autonomia delle parti sociali, non prevedendo forme di limitazione del diritto di sciopero, pur nel quadro di un esercizio responsabile della conflittualità sociale; e in terzo luogo, nella connessione e nella dialettica che, rifuggendo da chiusure aziendalistiche, dovrebbe instaurarsi tra il livello aziendale della contrattazione e le principali sedi del governo dell’economia e di determinazione degli investimenti. La specificità di questo modello potrebbe insomma essere rinvenuta, da un lato, nel rifiuto operato nei confronti dell’ipotesi cogestionaria di stampo tedesco, volta all’inclusione dei lavoratori e dei loro rappresentanti nelle “stanze dei bottoni” interne all’impresa, e dall’altro nella prospettiva di una partecipazione conflittuale che punti all’estensione della contrattazione collettiva alla «area delle prerogative manageriali». Giugni risulta mosso in questa fase dalla convinzione per cui il ruolo centrale che la classe operaia è venuta ad assumere ponga in maniera ineludibile il problema del suo «ruolo egemonico nel sistema di potere che gestisce il processo produttivo»: la «domanda di potere economico» che è venuta emergendo attraverso l’esperienza dei consigli di fabbrica non solo ne è la conferma, ma spinge a superare positivamente quel ruolo di mero «contropotere aziendale»[1] esercitato fino ad allora dal sindacato e dalle rappresentanze operaie. L’esperienza tedesca e la prospettiva cogestionaria che di questa è diretta emanazione non possono a suo parere rispondere pienamente a questa esigenza di controllo globale, in quanto la Mitbestimmung risulterebbe «permeata di concezioni collaborative»[2], finalizzata ad una «lottizzazione tra sfera economica e sfera sociale […] tra borghesia produttiva e classe operaia»[3], e proprio per questo incapace di produrre un reale mutamento di egemonia sociale.
Al tempo stesso, Giugni si mostra scettico circa l’efficacia e l’adattabilità al contesto italiano tanto dei progetti delle socialdemocrazie scandinave, ruotanti intorno al progressivo trasferimento del titolo di proprietà nelle mani di un soggetto collettivo di natura sindacale, quanto delle forme di autogestione organizzativa, anche dette shop floor democracy. Rispetto ai primi, da un lato contesta l’equazione proprietà=controllo, negando che una mera trasformazione della proprietà (si pensi alle nazionalizzazioni) possa automaticamente coincidere con l’immissione o l’influenza nei processi decisionali dell’apparato produttivo e delle imprese che lo compongono. Dall’altro, pur ritenendo sensato il rilievo di Federico Mancini circa le ricadute positive che una scansione programmata del processo di trasformazione degli assetti proprietari (uno degli elementi chiave del progetto dei “Fondi dei salariati” elaborato da Meidner e dalla LO svedese) potrebbe produrre nei riguardi delle aspettative degli attori economici e del governo delle variabili indipendenti[4], il giuslavorista socialista è portato a chiedersi se si è davvero esaurito storicamente il ruolo dell’imprenditore-innovatore, o se non si tratti, piuttosto, di rideclinarne in senso sociale la funzione, limitandola e influenzandola?[5] Per quanto riguarda invece le forme di shop floor democracy, la criticità di Giugni circa lo schiacciamento su di esse del concetto di democrazia industriale è dovuto alla constatazione che il loro fine risiederebbe più nella rottura dei sistemi tayloristici di organizzazione del lavoro, che non nella socializzazione della funzione imprenditoriale, non intaccando dunque le finalità e gli obiettivi del processo produttivo[6]. A parere di Giugni infatti, per non risolversi in una mera «ricomposizione tutta a favore del management»[7], l’aspirazione ad una progressiva “umanizzazione del lavoro”, sottesa a queste forme di autogestione organizzativa, dovrebbe saldarsi con la piena coscienza della necessità di sviluppare i concetti di autogestione e controllo operaio fino alle loro estreme conseguenze, andando cioè oltre il solo nodo della divisione tecnica del lavoro e superando, perciò, i limiti angusti della dimensione della catena di montaggio.
Globalità o aziendalismo? La partecipazione conflittuale e il governo dell’economia
Al contrario, la “partecipazione conflittuale” propugnata dalla tradizione sindacale italiana, oltre a rifiutare logiche compromissorie tra lavoratori e proprietà – passibili di derive integrazioniste e corporative – avrebbe dalla sua il fatto di non limitare il movimento operaio alla ristretta prospettiva di azienda, ma di indicargli una prospettiva più larga e in grado di considerare unitariamente gli interessi e le esigenze della classe, esercitando così un vero e proprio «controllo sulla congruenza della condotta dell’imprenditore rispetto agli obiettivi» definiti nell’ambito della programmazione economica[8]. Localizzazione e qualificazione degli investimenti vengono considerati nella concezione di Giugni come i soli strumenti attraverso cui raggiungere i reali centri decisionali dell’economia e pervenire così ad un’azione tale da incidere sulle caratteristiche principali del modello di sviluppo, imponendo una programmazione «dal basso» in grado di supplire alle mancanze del sistema politico e di prevenire degenerazioni in senso burocratico e tecnocratico.
L’accento che in tal modo viene posto su un angolo visuale tale da inquadrare lo sviluppo in maniera complessiva e globale, portando il movimento sindacale ed i consigli di fabbrica a piegare la propria strategia ed il proprio lavoro quotidiano ad una prospettiva conoscitiva e di elaborazione sui nodi del processo produttivo integralmente inteso, fa sì che ad essere perseguita sia la mutazione antropologica già adombrata da Gramsci, per cui l’operaio, da semplice operatore di mercato e venditore di forza-lavoro, si fa produttore[9]. All’interno di questa prospettiva – la cui filiazione rispetto ai progetti di Rodolfo Morandi sui Consigli di gestione è lampante, in virtù del collegamento e della connessione che in essa viene a stabilirsi tra il momento aziendale ed il momento generale e programmatorio – il sindacato e la classe operaia massimizzano, nei fatti, la propria «forza conflittuale»[10] e la propria «autonomia», mettendo in essere concretamente una linea alternativa di politica economica, finalizzata al superamento degli squilibri di natura settoriale e regionale.
Va poi sottolineato come il rifiuto che in quella fase viene opposto da Giugni alla prospettiva di una partecipazione interna all’impresa e alle sue strutture di governo, non sia da confondere con una visione del controllo operaio meramente rivendicativa e contestatrice, secondo la logica del contro-potere aziendale. Al contrario, sia negli scritti individuali che nelle famose Tesi redatte a quattro mani con Cafagna, egli ribadisce a più riprese come la crisi di legittimazione che investe l’impresa, e soprattutto la natura monista della sua struttura di potere, ponga al sindacato e alle forme di rappresentanza operaia il problema di far proprio un approccio che, senza disperdere la sua natura conflittuale e di classe, sappia però ripensarsi in termini progressivamente gestionali[11]. Solo in un secondo momento, quando cioè alla fine del decennio la via meramente contrattuale alla democrazia industriale comincerà a mostrare la corda, Giugni – sulla scorta di un intervento di Amato in cui si caldeggia un adattamento alla realtà italiana del modello tedesco e dell’internità della sua dinamica partecipativa – riconoscerà l’opportunità di una legislazione promozionale e di sostegno che dia vita ad una nuova «articolazione interna del potere sindacale in azienda», posta «in un rapporto triangolare tra la direzione e le sedi esterne di programmazione»[12]. E ciò, al fine di conferire una maggiore stabilità e istituzionalizzazione – aldilà, dunque, della natura rivendicativa dei consigli di fabbrica – agli organi di rappresentanza operaia deputati alla «trattazione dell’informazione» e alla «discussione intorno alle strategie d’impresa»[13].
L’indisponibilità alla logica tedesca della partecipazione interna e alla stessa “quinta direttiva” (nel frattempo ripresa nel suo nucleo centrale dal socialista olandese Vredeling, commissario europeo), verrà meno in maniera definitiva nel corso degli anni Ottanta, contestualmente alla svolta neocoporatista e in favore della economia concertata compiuta dal Psi negli anni del Pentapartito. Interventi legislativi volti ad istituzionalizzare l’intervento sindacale nella gestione delle imprese vengono infatti considerati il «logico complemento di un’ampia articolazione della concertazione, che non può esaurirsi nel momento dei grandi accordi di vertice». Non sarebbe infatti pensabile governare le grandi variabili macroeconomiche senza portare nell’impresa il consenso sociale concertato attraverso una «politica di consultazione e codecisione»[14].
Controllo operaio, controllo sociale e autogestione nel Progetto socialista: quale rapporto?
All’interno di questo disegno, è infine possibile scorgere un’ispirazione autogestionaria, che segna una grande distanza rispetto all’approccio adottato dal Pci con la sua proposta delle “conferenze di produzione”. Se infatti Giugni individua in quest’ultimo la tendenza a concepire il controllo operaio come “controllo politico del partito-principe”, il Psi a suo parere dovrebbe al contrario farsi «garante» e promotore della diffusione di «forme di controllo sociale, che costituiscono un’area di potere laterale, e in rapporto dialettico, rispetto ai partiti di classe»[15]. L’esigenza di declinare il controllo operaio “socialmente”, stabilendo cioè la primazia dei consigli di fabbrica e delle altre forme di rappresentanza sulle forme partitiche di mediazione dei conflitti, discende inoltre dalla scelta pluralistica compiuta dai socialisti italiani e che li rende antitetici al monismo organicista che ritengono proprio della teoria gramsciana dell’egemonia: «l’idea della società autogestionale corre parallela alla democrazia conflittuale», affermerà, non a caso, Giugni intervenendo sul tema dell’autogestione[16]. Solo attraverso un «controllo sociale diffuso» sarebbe infatti possibile dare piena espressione alle «diversità» esistenti in seno alla società civile e portarle a sintesi, in un’autentica «concordia discors»[17], fuori dalla logica impositiva sottesa al “moderno principe” comunista ed esaltando, al contrario, la loro capacità di autoregolazione, «la piena autonomia del momento dell’autogoverno sociale»[18]. È in questo senso che è possibile parlare del controllo sociale come «forma […] del pluralismo», come piena «conseguenza di una scelta in senso conseguentemente pluralistico»[19]. Nonostante ciò però, Giugni – che si pone in linea con l’invito di Amato a declinare questa idea-forza compiendo una «lunga marcia fuori dall’utopia»[20] – sembra approcciarsi all’ipotesi autogestionaria in maniera estremamente laica, ritenendola più un principio ispiratore che non un autonomo e autosufficiente progetto politico. Il suo scetticismo è rivolto sia nei confronti delle visioni globali e sistematiche dell’autogestione, portate a vedere in essa «lo stadio finale dell’evoluzione sociale», quanto nei confronti del cosiddetto “sperimentalismo pragmatico”, il quale, passo dopo passo e tentativo dopo tentativo, dovrebbe condurre le forme autogestionarie ad estendersi all’insieme del corpo sociale[21]. Anche le esperienze di «autogestione esemplare»[22] – si pensi alla Lip – si sarebbero mostrate incapaci di generalizzazione, mancando in un’ultima istanza di quella caratteristica essenziale per qualsiasi progetto politico autonomo: la capacità di porsi, cioè, «come progetto globale, anche se e realizzazione differita nel tempo»[23].
[1] G. Giugni, L. Cafagna, Democrazia industriale: tesi per un dibattito, in AA.VV., Democrazia industriale e sindacato in Italia, nuova serie dei quaderni di Mondoperaio, n.5, 1977, p. 83.
[2] G. Giugni, Appunti per un dibattito sulla democrazia industriale, in Democrazia industriale, cit., p. 9.
[3] G. Giugni, L. Cafagna, Democrazia industriale: tesi cit., p. 84.
[4] F. Mancini, L’esempio viene dalla Svezia, in Democrazia industriale e sindacato cit.,
[5] G. Giugni, Appunti per un dibattito cit., p. 9.
[6] Ivi, p. 8.
[7] N. Cacace, Il coraggio di rischiare, in Democrazia industriale e sindacato cit., p. 65.
[8] Ivi, p. 85.
[9] G. Giugni, Impresa e sindacato, in G. La Ganga (a cura di), Socialismo e democrazia economica. Il ruolo dell’impresa e del sindacato, Franco Angeli, 1977, p. 24.
[10] G. Giugni, Appunti per un dibattito, cit., p. 9.
[11] G. Giugni, Impresa e sindacato cit., pp. 22-25
[12] G. Giugni, Controllo nell’impresa e controllo sulle imprese, Mondoperaio, 1978, n. 7/8., p. 102.
[13] Ibid., p. 101
[14] G. Giugni, Strategie economiche e Comunità europea, in AA. VV., Democrazia economica, sindacato, eurosocialismo, quaderni de “Il compagno”, 1983, n. 14, p. 82.
[15] G. Giugni, L. Cafagna, Democrazia industriale: tesi cit., p. 86.
[16] G. Giugni, Autogestione e progetto socialista, Mondoperaio, 1979, n. 6, p. 105
[17] G. Giugni, Democrazia industriale e controllo operaio, in Democrazia industriale e sindacato in Italia cit., pp. 198-199.
[18] G. Giugni, Autogestione e progetto socialista cit., p. 105
[19] G. Giugni, Democrazia industriale e controllo operaio cit., pp. 198-199.
[20] G. Amato, La lunga marcia fuori dall’utopia, Mondoperaio, 1979, n. 10
[21] G. Giugni, Autogestione e progetto socialista cit., p. 107
[22] G. Giugni, L. Cafagna, Democrazia industriale: tesi cit., p. 84.
[23] G. Giugni, Autogestione e progetto socialista cit., p. 107
Giugni, il testamento politico di un riformista
Una flessibilità del lavoro da non confondere con le ricette neo liberiste. La concertazione come strumento fondamentale per risolvere il problema della governabilità fondata sul consenso. Come proseguire sulla via che ci ha indicato
di Tiziano Treu
Gino Giugni è stato un maestro del diritto del lavoro e un grande riformatore delle politiche sociali. Lo riconosciamo tutti, colleghi, allievi delle diverse scuole, politici ed esperti. Io personalmente lo posso testimoniare con piena conoscenza per avere seguito da vicino la sua opera per lunghi anni. Fin dal 1964, quando incontrai per la prima volta Giugni al mio ritorno dagli Stati Uniti dove avevo in parte seguito, senza saperlo, la sua esperienza di immersione nella cultura del Nord America, dal realismo giuridico della scuola di Chicago, al neoistituzionalismo degli studiosi del Wisconsin.
Io venivo da studi di diritto Privato, con forti intonazioni sistematico-formali, alle quali mi aveva avviato il prof. Luigi Mengoni con cui mi ero laureato allUniversità Cattolica. Già dal primo incontro con Giugni pensai che quella era la strada che dovevo intraprendere, la mia strada. Ne sono ancora, più che mai, convinto. Anche per questo ricordo Giugni con la commozione e il dolore di chi ha perso il suo maestro e un amico carissimo.
E difficile indicare i temi principali dellinsegnamento di Giugni, perché egli ha ispirato direttamente o indirettamente per mezzo secolo tutte le principali innovazioni e riforme del diritto del lavoro. Egli ha operato direttamente sulla legislazione quando era ministro del lavoro (nel 1993) e presidente della commissione Lavoro al Senato (dal 1983 al 1994); prima ancora nel lungo periodo in cui è stato consigliere di ministri (a partire da Giacomo Brodolini), un consigliere autorevole fino ad essere decisivo per lazione del ministro.
Linfluenza indiretta è quella espressa con la sua attività di giurista. Anche quella indiretta è stata incisiva; si pensi allimportanza delle sue leggi sullautonomia collettiva in ordine alla concezione e poi alla pratica affermatasi in Italia circa il rapporto fra fonti legali e contrattazione collettiva. Certe prese di posizione di Giugni hanno inciso con straordinaria tempestività e incisività su importanti episodi di politica del diritto: dalla legislazione sui licenziamenti degli anni 1960, al cosiddetto diritto del lavoro dellemergenza e alla flessibilità regolata fra gli anni 70 e 80, alle riforme attivate dalla concertazione degli anni 90. Le sue proposte e intuizioni hanno avuto contenuti molto più ampi delle riforme effettivamente concluse.
Il primo insegnamento di Giugni che voglio qui richiamare è e di metodo. La sua opera ha saputo combinare il rigore e limpianto riformista, che gli veniva dal pensiero giuridico di inizio Novecento, italiano e tedesco, il socialismo della cattedra, con la sensibilità alla realtà sociale e dei rapporti collettivi, propria della scuola del Wisconsin. Di qui la trama di coerenze, di metodo e di ideologia che sostengono tutta lopera di Giugni legislatore e politico del diritto: ladesione a quel pluralismo conflittuale che costituirà un referente culturale decisivo dei moderni sistemi di diritto del lavoro e di protezione sociale; la valorizzazione della riforma come valore in sé, anziché come un passo verso una nuova società preconfezionata; un riformismo sociale che trae alimento dallosservazione empirica e da apporti di discipline diverse dal diritto, il valore attribuito allautonomia collettiva, come sistema capace di produzione normativa, di amministrazione e anche di giurisdizione (la conciliazione e larbitrato).
Questo orientamento trova la sua prima sistemazione e cornice metodologica nel saggio sullautonomia collettiva del 1960: una vera opera di rottura, che provoca forti reazioni, dai pochi che ne colgono limportanza, ma che segna come si vedrà nel tempo una svolta storica: cioè la conquista di uno spazio culturale a fronte del legalismo allora dominante che impediva una considerazione autonoma del fenomeno sindacale e della contrattazione collettiva.
La teoria della pluralità degli ordinamenti ha contribuito a spostare lattenzione teorica e poi politica della concezione statalistica tradizionale del nostro diritto del lavoro a una prospettiva pluriordinamentale nella quale lautonomia collettiva assumeva, o poteva assumere, carattere di fonte regolativa dei rapporti di lavoro. La liberazione da questa tradizione statalistica ha un grande rilievo non solo se si considerano i rischi politici nel contesto degli anni 50 di una legislazione modellata sullart. 39, ma anche alla luce delle vicende successive del nostro sistema sindacale che lo mantengono in uno condizione di abstension of the law, pressoché unica nellEuropa continentale. Questo insegnamento di Giugni non vale solo come antidoto allinterventismo legislativo. Invita i giuristi e lo stesso legislatore a guardare ai prodotti dellautonomia collettiva per ricercare le linee evolutive del nuovo diritto del lavoro. A questa indicazione Giugni sarà sempre fedele, anche quando gli eventi lo smentivano.
Egli ha sempre sostenuto la necessità di modulare le regole e le politiche del lavoro alla luce delle trasformazioni sociali, pur mantenendo fermi i grandi principi costituzionali. Una innovazione fondamentale che discende da questo insegnamento di metodo riguarda il rapporto fra legge e contrattazione collettiva; e avrà uninfluenza determinante nella configurazione dello Statuto dei lavoratori. Ha portato a superare la iniziale impostazione costituzionalista, sostenuta dalla sinistra e dalla CGIL. La critica di Giugni a questa impostazione è che la sola sanzione giuridica dei diritti dei lavoratori, quelli contenuti nel Tit. I della legge, è inadeguata perchè la mera sanzione dei diritti fondamentali non ne garantisce leffettività, se non si rende possibile esercitarli in forme collettive allinterno delle aziende e, come più ambiziosamente scriveva nel 1956, se non si costituisce una reale democrazia industriale fondata su un equilibrio di potere fra rappresentanze operaie e vertici dellimpresa. Questa è la concezione base della legislazione di sostegno dellattività sindacale in fabbrica, che risente dellesperienza americana del New Deal e che porterà al Tit. III dello Statuto.
Le implicazioni più ambiziose della proposta di Giugni, riguardanti la democrazia industriale, non dovevano invece avere seguito nelle vicende italiane, nonostante Giugni sia più volte ritornato sullargomento, con dovizia di argomenti, arricchitisi delle direttive europee. La legislazione sulla democrazia industriale doveva restare una delle sue proposte inattuate di politica del diritto. Gli ostacoli allaccettazione di forme partecipative, ulteriori rispetto ai diritti di informazione e consultazione, erano così fortemente radicati, sia negli orientamenti conflittuali di gran parte del sindacato, sia nelle concezioni conservatrici prevalenti fra gli imprenditori, da risultare insuperabili. Il tema della partecipazione non verrà ripreso neppure nei momenti salienti segnati dagli accordi del 1983 e del 1993; e Giugni doveva registrare questo significativo silenzio senza commenti, quasi con rassegnazione. Chissà se il dibattito attuale e i ddl oggi in discussione al Senato saranno in grado di dare seguito a questidea di democrazia industriale?
Un carattere originale dello Statuto fu lintroduzione dellart. 18 sulla reintegrazione in caso di licenziamento che non cera nella versione originaria. Sul punto Giugni ha mantenuto non solo allora un atteggiamento di distacco; scrivendo ne La lunga marcia della concertazione del 2003, ha affermato oggi non lo riscriverei nello stesso modo. E aggiungeva un richiamo allimportanza dellarbitrato come unica alternativa possibile ai meccanismi dilatori della giustizia ordinaria. Anche questo della giustizia arbitrale, o come si dice oggi delle AdR, è un motivo di politica del diritto sviluppato da Giugni alla stregua delle esperienze anglosassoni fin dagli anni 60: ma è un altro tema rispetto al quale le proposte di Giugni sono rimaste purtroppo disattese. E non solo negli anni 60, quando potevano sembrare premature, ma fino ai giorni nostri, per una opposizione della CGIL che anche a me è sempre parsa ingiustificata e alla fine controproducente per la effettiva giustiziabilità dei diritti dei lavoratori.
Lapplicazione dello Statuto e gli eventi successivi delle Relazioni industriali hanno spesso dato adito a critiche, anche nei confronti del suo autore; critiche che hanno imputato alla legge e alla sua attuazione giurisprudenziale la eccessiva conflittualità delle nostre Relazioni Industriali. Anchio mi sono interrogato più volte su questo punto e ho condiviso la valutazione di Giugni, secondo cui una legge come lo Statuto non ha creato, ma semmai portato alla luce tensioni che già esistevano.
Il punto è che queste tensioni non sono state adeguatamente controllate dal sistema. La scelta di promozione senza regolazione legislativa del sindacato non è stata cioè compensata da una regolazione consensuale dei rapporti collettivi ad opera delle parti sociali. E questo un punto critico non solo nelle vicende del periodo ma dellintero assetto dei rapporti sindacali nel nostro paese. Si registrò allora, e continuerà dopo, una sfasatura fra le politiche del diritto di ispirazione riformista, quali lo Statuto, e politiche sindacali caratterizzate da riformismo debole e da impostazioni rivendicative conflittuali (se non antagonistiche) non risolte.
Questa combinazione di riformismo debole e di impostazioni rivendicative spesso estreme, continua a pesare sullefficienza e sullequità del nostro sistema; anche oggi che la conflittualità è crollata e che il sindacato è in grave difficoltà.
Un altro aspetto dellopera di Giugni tuttora di grande attualità riguarda le proposte in tema di governo e di flessibilità del mercato del lavoro. Già nella relazione allAIDLASS del 1982 egli avvertiva che le trasformazioni produttive e del lavoro, allora appena incominciate, avrebbero messo in discussione il tradizionale approccio garantistico rigido del diritto del lavoro. E proponeva di ripensarlo in due direzioni solo in parte seguite. Anzitutto con unopera destruens diretta a razionalizzare, sfrondare, eliminare tutte le forme di spreco e di garantismo sproporzionato, per adeguare le tutele ai bisogni sociali effettivi che invece restano spesso scoperti, per proteggere in particolare i lavori atipici, allora sconosciuti e poi moltiplicatisi.
In secondo luogo Giugni proponeva di usare tecniche regolative graduate. Una deregolazione vera e propria era utile solo nei casi di comprovata inadeguatezza delle vecchie norme, come quelle sul collocamento, la cui riforma fu avviata da Giugni ministro in un ddl del 1993 e poi completata dalla legge 196/1997.
In altri casi serviva una riregolazione per una flessibilità negoziata dalle parti sociali. Questa strada sarà seguita in molti ambiti: ad esempio in tema di contratti a termine (legge 56/1987), di contratti di solidarietà (legge 863/1984), di indennità di fine rapporto (legge 297/1982), di gestione delle crisi aziendali (legge 223/1991). Ma indicazioni simili sono già nella legislazione sul costo del lavoro del 1997 e nella legge 297/1982 sullindennità di fine rapporto, su cui Giugni incide direttamente come presidente di una apposita commissione ministeriale.
Come si vede lobiettivo di fondo è di rafforzare gli istituti dellautonomia collettiva per sostenere una flessibilità negoziata del sistema garantistico. Per questo Giugni ci teneva a ribadire, allora come in seguito, che la sua dottrina della flessibilizzazione e quella realizzatasi nei fatti non è da confondere con una forma di neo liberismo. E una risposta necessaria alle nuove tendenze del mercato del lavoro e delle relazioni Industriali. E finalizzata a combattere la crescente segmentazione di questo mercato, la diversificazione dei lavori e delle professioni, il mutamento delle aspettative dei lavori, con una maggiore aspirazione verso la libertà individuale nella determinazione delle condizioni di lavoro, specie per le qualifiche più elevate, nonchè ad alleggerire il carico normativo che è uno dei sintomi della crisi del welfare state.
Alla luce delle esperienze successive agli anni 70, Giugni ha ritenuto necessario rafforzare il sistema di relazioni industriali con altri interventi di sostegno, proprio per compensare la scarsa capacità di questo di autoregolarsi. Già in un progetto del 1983 riteneva necessaria la definizione di regole legislative nuove specie per quanto attiene alla legittimazione delle parti, allefficacia degli accordi e alla gestione del conflitto. Queste indicazioni sono ancora una volta lungimiranti. Troveranno parziale seguito in tema di regolazione del conflitto per il settore dei servizi pubblici, traducendosi nella legge 146 del 1990 approvata sulla spinta di un evento eccezionale, come i campionati mondiale di calcio. Giugni indica la legge 146 come uno degli esempi più fecondi di integrazione fra autonomia collettiva e intervento legislativo.
Gli altri due temi, rappresentatività sindacale e regole sul contratto collettivo, si riveleranno invece resistenti allintervento riformatore; salvo la formula sulla misura della rappresentatività nel Pubblico Impiego, approvata nel 1998 in un momento felice del governo Prodi e dellunità sindacale. La resistenza non sarà superata neppure a seguito del patto sociale del 1993; concluso con il decisivo contributo di Giugni come ministro del Lavoro. Eppure questo Patto costituì, a detta di Giugni, in uno dei momenti di raro compiacimento, un piccolo miracolo della concertazione.
Il miracolo è stato decisivo nello stabilizzare linflazione e quindi leconomia italiana nei burrascosi anni seguenti. Laccordo ha avuto seguito molto parziale per gli altri suoi contenuti di applicazione non automatica, cioè che richiedevano riforme attuative. Il risultato più concreto fu la legislatura di riforma del mercato del lavoro, lungamente preparata da Giugni e che si tradurrà nellAccodo del 1996, preparatorio della legge 196/1997.
Sono invece restate inattuate fino ad oggi altre parti, cui pure Giugni dava grande importanza: non solo le regole sulla rappresentatività sindacale e sullefficacia della contrattazione collettiva ma la razionalizzazione ed estensione degli ammortizzatori sociali, che resta tuttora lurgenza più evidente del nostro sistema. La sua mancata realizzazione pregiudica una gestione socialmente accettabile della flessibilità e della mobilità. Penso anche alle proposte di nuove tutele per i lavori cd. atipici, cui Giugni pensava e ci incoraggiava a darvi seguito. Infine ricordo i suggerimenti per la revisione del patto sociale del 1993 forniti nel 1998 dalla commissione da lui preceduta, rivelatisi ancora attuali e utili nelle travagliate vicende che hanno portato allAccordo del 22 gennaio 2009 sulla struttura contrattuale.
Lesperienza del protocollo del 1993 e il consenso ottenuto suggeriscono – secondo i commissari – lopportunità di procedere non a radicali modifiche, ma a una revisione rivolta a consolidare i risultati raggiunti, in particolare sul sistema di relazioni industriali. La continuità delle linee di fondo e la stabilità del quadro normativo sono elementi fondamentali per evitare rotture del contratto sociale; una preoccupazione sempre presente per un riformista innovatore come Giugni.
Anche in questo caso Giugni ribadisce che per attuare queste innovazioni non basta il richiamo allautodeterminazione delle parti e che occorre un sostegno alla contrattazione, con misure diverse a seconda dei casi. Per premiare la negoziazione di retribuzioni flessibili egli propone un sostegno monetario, la cosiddetta decontribuzione dei salari negoziati in sede decentrata e connessi a indici di produttività (la misura sarà introdotta subito dopo ma in quantità ridotta e, a quanto si riscontrerà in seguito, con debole efficacia).
Per sostenere una amministrazione bilaterale del contratto e delle controversie collettive Giugni rilancia unaltra sua proposta: quella di costituire lAgenzia per la contrattazione collettiva, sul modello anglosassone. Le indicazioni del rapporto sulla struttura contrattuale si incentrano sulla necessità di approfondire ulteriormente la differenza funzionale dei livelli contrattuali assegnando al contratto nazionale lobiettivo primario di difendere il potere di acquisto delle retribuzioni e accrescendo la specializzazione della contrattazione decentrata (aziendale ma anche territoriale).
Il rapporto della Commissione rappresenta un atto di fiducia nella concertazione, nella necessità di riprenderla, ma di arricchirla per adeguarla ai nuovi obiettivi richiesti dalle trasformazioni economiche e sociali e alle istanze di nuovi attori, come le autonomie locali in seguito alle competenze derivate dalla legislazione sul decentramento (fino al Tit. V della Costituzione). La fiducia di Giugni nella concertazione è maturata dal convincimento che in una società complessa il metodo di governo e la concertazione si devono articolare in modo da offrire nuovi tracciati per la canalizzazione del consenso. Non a caso il suo ultimo contributo è tutto dedicato alla concertazione.
La concertazione, ci ricorda è ben più di una mera tecnica di mediazione nellarea delle relazioni pluralistiche, è uno strumento fondamentale per risolvere il problema della governabilità fondata sul consenso; e questo nei regimi democratici, fondati sullalternanza fra forze politiche di diverso orientamento, è il modo per assicurare alla maggioranza politica la continuità.
Per questo Giugni ha sempre ritenuto che le riforme del lavoro devono essere costruite con il consenso sociale, come fu lo Statuto del 1970 e come furono le principali leggi degli anni 90. Per questo egli è sempre stato un sostenitore dellautonomia e dellunità del sindacato, perché questo potesse essere parte autorevole del riformismo sociale. La debole capacità riformatrice del nostro sistema politico e sindacale era un cruccio per Giugni: ed ha impedito lattuazione di molti progetti innovativi da lui avviati e anche da noi coltivati, secondo i suoi insegnamenti.
Giugni si è impegnato nellintero corso della sua vita a superare il deficit di riformismo del nostro paese, senza demordere di fronte alle resistenze, continuando a diffondere i suoi insegnamenti con la fiducia nella persuasione e nella cultura. Allo stesso fine si è dedicato allattività politica, nel partito, il PSI, nel Parlamento, come presidente della commissione Lavoro del Senato, e come ministro del Lavoro. Lo ha fatto con la coerenza, con il disinteresse, con la signorilità che lo hanno sempre contraddistinto. Anche questo è insegnamento prezioso, da me particolarmente sentito, e che ha influito su tanti studiosi e operatori attivi nel mondo del lavoro, sindacalisti, imprenditori e politici.
I contributi di Giugni sono stati largamente apprezzati, ma lo hanno anche esposto, come altri riformisti, alle critiche degli estremisti, e allattentato terroristico di cui egli fu vittima nel 1983.
Giugni ci lascia in un momento critico non solo per il mondo del lavoro ma per la vita democratica del paese. Ci lascia però indicazioni preziose: limportanza di unire il rigore delle ricerche con la curiosità dellinnovazione e con la sensibilità ai problemi delle persone che lavorano; la fiducia nel dialogo e nella possibilità di riforme lungimiranti sostenute dalla forza della ragione, dalla passione e dalla coerenza politica. Rigore, voglia di innovazione, sensibilità al mondo del lavoro, fiducia nel dialogo, sono doti che Giugni ci ha insegnato a coltivare. Sono le risorse cui attingere per attuare politiche riformiste, utili al benessere collettivo e allo sviluppo delle persone