Emergenza carceri a Roma, Giuseppe di Noto
EMERGENZA CARCERE A ROMA
Molti non lo sanno o fanno finta di non saperlo, primo fra tutti il nostro Governo, ma la situazione carceraria a Roma è divenuta insostenibile.
Regina Coeli e Rebibbia sono da tempo al collasso e le cose sembrano peggiorare di giorno in giorno nella generale indifferenza di chi ritiene che il mondo carcerario sia un problema a parte di cui non è tanto necessario occuparsi.
Nelle carceri laziali ci sono oltre 6.500 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 5.200 posti.
A Rebibbia la massima capienza tollerata è di circa 1.200 detenuti, ma ce ne sono 400 in più, con il risultato di un sovraffollamento che determina la presenza in ogni cella di 6 detenuti anziché 4.
Ancor più grave è la carenza di personale denunciata da più parti: mancano agenti ed educatori, esposti quotidianamente al rischio di aggressioni.
Nei turni di notte capita spesso che un solo agente debba vigilare un intero reparto.
Le criticità strutturali nell’edificio che risale agli anni ’60 sono più che evidenti: infiltrazioni, crolli ai soffitti, pareti infestate dalla muffa, videosorveglianza assolutamente inadeguata.
Rebibbia è un caso emblematico che rispecchia la degenerazione delle carceri di tutto il Lazio.
A Regina Coeli le cose vanno ancora peggio: l’eccedenza è di oltre 300 unità, dal momento che la struttura, che può contenere fino a 620 persone, ne ospita 960.
Le conseguenze sono ancora più drammatiche a causa delle ben note condizioni strutturali di un edificio adibito originariamente a monastero e che non è più in grado di garantire standard accettabili di carcerazione, con la costante necessità di continui interventi di ristrutturazione.
Regina Coeli è un istituto vecchio, come ha denunciato l’associazione Antigone, un convento del 1600 che alla nascita dello Stato unitario è diventato un carcere e presenta le problematiche strutturali tipiche degli istituti dei secoli scorsi.
Il risultato del sovraffollamento è strettamente connesso con il peggioramento delle condizioni di vita dei detenuti e di quelle degli addetti ai lavori, specialmente degli agenti di polizia penitenziaria che sono in cronica carenza di organico.
Come ha sottolineato il Garante “le criticità si avvertono a Regina Coeli più che in altre strutture, perché quello di via della Lungara è un carcere di passaggio, dove i detenuti restano in attesa della scarcerazione o della condanna di primo grado. Regina Coeli è la struttura dove sono trasferiti tutti coloro che vengano arrestati a Roma.”
Le lamentele per la quantità e la qualità del cibo sono all’ordine del giorno e i detenuti, tra cui molti spesso non ricevono il pasto, hanno diritto a pochi minuti d’aria al giorno, talvolta non possono cucinare, non hanno momenti di socialità, in alcuni casi sono costretti a dormire su materassi stesi per terra e possono utilizzare solo un rotolo di carta igienica fornito dall’amministrazione penitenziaria.
Gli spazi nelle celle sono talmente ristretti anche in conseguenza dell’eccessivo sovraffollamento (ogni detenuto dovrebbe avere a sua disposizione almeno 3 mq) che i detenuti spesso mangiano sui letti e sono costretti a tenere il cibo e gli indumenti sotto il letto per non occupare ulteriormente gli spazi comuni tanto ristretti.
Non è certamente migliore la situazione igienico-sanitaria, con l’incombere costante di epidemie con malattie contagiose, come la tubercolosi e la scabbia che si sono diffuse pericolosamente qualche anno fa.
Spesso molti detenuti sono alloggiati nel centro clinico, pur non avendo bisogno di cure, perché nel resto del carcere non c’è posto.
Il Garante ha denunciato di recente: “il paradosso di questa situazione è che si sta creando un clima di solidarietà tra personale di polizia penitenziaria e detenuti: non sono infrequenti casi in cui due soli agenti devono controllare oltre 220 detenuti. Se questa vera e propria emergenza umanitaria non è ancora deflagrata, lo si deve al senso di responsabilità dei detenuti e soprattutto all’impegno della polizia e degli operatori penitenziari che, nonostante i paurosi vuoti di organico, ogni giorno affrontano e risolvono molteplici problematiche: dalle traduzioni alla ricerca di posti letto fino alla gestione di centinaia di colloqui giornalieri in una struttura e in un contesto che, certo, non aiutano a pensare ad un futuro migliore.”
In entrambi gli istituti di pena i disordini ed i tumulti sono attualmente all’ordine del giorno, come denunciato dal sindacato di Polizia Penitenziaria.
Le due carceri, come d’altronde molte altre nella regione e in Italia, si trasformano da luogo di rieducazione in palestra del crimine a causa della assoluta incapacità della politica di individuare ed indicare un percorso che porti a superare l’emergenza, invertendo la rotta nella direzione di strutture efficienti che possano restituire senso e dignità alla pena e che rispettino le esigenze minime di sicurezza tanto per i detenuti quanto per gli operatori.
E di certo, ancora in questi anni come in passato, non si può parlare di sicurezza all’interno di Rebibbia e Regina Coeli.
Appena due anni or sono un italiano di circa 60 anni, imputato di ricettazione, si è suicidato a Regina Coeli impiccandosi nella cella che condivideva con altri quattro detenuti.
Nello stesso periodo una donna si è tolta la vita nello stesso modo nella Casa Circondariale femminile di Rebibbia dove era detenuta per omicidio.
E’ a tutti noto il caso verificatosi nello stesso carcere dove una giovane donna, detenuta perché trovata in possesso di sostanza stupefacente, ha lanciato dalle scale i suoi due figli uccidendoli.
A Rebibbia di recente un detenuto ha aggredito un medico del carcere e ferito un agente e pochi giorni fa un altro detenuto ha appiccato il fuoco nella cella che lo ospitava con altre persone.
Questi gravi episodi confermano che i problemi sociali e umani permangono tutt’oggi nei penitenziari romani, lasciando isolato il personale di polizia a gestire queste situazioni di emergenza.
E’ evidente che le tensioni e le criticità nel sistema dell’esecuzione della pena sono diventate sempre più frequenti e drammatiche e, come se non bastasse, la situazione è divenuta ancor più allarmante per gli agenti di polizia penitenziaria, che pagano pesantemente di persona questi gravi e continui episodi di violenza.
Le condizioni di lavoro particolarmente stressanti dei secondini rimangono un problema tuttora irrisolto.
Il presidente di Antigone ha giustamente denunciato: “ogni suicidio è sicuramente una storia a sé, un gesto individuale di disperazione, ma è anche il fallimento di un processo di conoscenza e presa in carico della persona. I suicidi non si prevengono con la sorveglianza asfissiante ma con i colloqui individuali, il sostegno psico-sociale, la liberalizzazione delle telefonate, la sorveglianza dinamica, l’umanità del trattamento. Per questo vanno chiusi tutti i reparti di isolamento a partire dal carcere romano di Regina Coeli.”
Cosa ha fatto l’attuale governo di Roma, l’amministrazione capitolina, per porre rimedio o quanto meno attenuare le drammatiche conseguenza denunciate e migliorare le condizioni di vita dei detenuti e dei loro controllori nelle carceri romane di Rebibbia e Regina Coeli?
Direi assolutamente nulla: finché il problema carcerario sarà vissuto ed interpretato come un problema che riguarda una fascia sociale che non ci appartiene e di cui tutto sommato si può fare a meno, la situazione rimarrà la stessa o peggio ancora continuerà ad aggravarsi.
Continuiamo a sperare, seppur in un contesto di giustificata apprensione e di motivato scetticismo, nella tanto auspicata riforma della legge penitenziaria, che speriamo arrivi in tempi ragionevoli ma che da anni attendiamo invano.
Solo a seguito di una sostanziale riforma che metta mano in modo radicale ad una situazione divenuta ormai insostenibile potremo garantirci e garantire una vita in carcere più umana e dignitosa per i detenuti, con un’attenzione particolare al personale di polizia penitenziaria che oggi paga un prezzo almeno pari a quello dei reclusi
Avv. Giuseppe Di Noto